di Alessandra Coppola da il Corriere della sera
I lavoratori della LA.RA. Srl potevano essere salvati. La società aveva una sua solidità e una lunga esperienza nel controllo degli impianti nella base militare Usa di Sigonella. Per portare avanti l’attività, c’era pure un piano di gestione preparato da un gruppo di manager formati proprio qui, a Milano. Invece, dopo la confisca, l’azienda s’è spenta e i venti dipendenti sono in cassa integrazione. È una storia che riguarda tutto il Paese: 1.708 società confiscate alla criminalità in Italia, 223 nella nostra regione, 110 soltanto nel perimetro di Milano. E di tutte queste, dalla Sicilia alla Lombardia, appena una sessantina resta in piedi. Dei mille problemi della gestione dei beni sottratti ai mafiosi rimane il numero uno: come salvarle da un destino certo di fallimento? Paola Pastorino e i suoi 62 colleghi un’idea ce l’hanno: «Chiedeteci aiuto, per recuperare queste imprese servono le nostre competenze». Che a breve saranno raggruppate in un elenco speciale, il primo in Italia: l’associazione professionale «Manager white list». Sottotitolo: «Un ponte tra le istituzioni e la redditività dei beni sequestrati e confiscati».
Non è una richiesta di soldi: «Per noi è anche una questione etica, in molti siamo disposti a farlo anche pro bono. O comunque a essere pagati solo dopo aver portato guadagni ». L’idea all’origine l’avevano avuta Assolombarda e Aldai (le associazioni delle imprese e dei dirigenti), che alla fine del 2011 avevano siglato una convenzione con l’Anbsc, l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati: un progetto per la formazione di esperti nel salvataggio di questo tipo di società. Che hanno problemi specifici. Spesso sono mere «lavanderie», scatole vuote con l’unico obiettivo di riciclare soldi, impossibili da recuperare.
Di frequente, stanno sul mercato grazie al doping mafioso, che tra minacce, contratti in nero e crediti «agevolati», sbaraglia la concorrenza: quando vengono «liberate» perdono la spinta aggiuntiva, s’appesantiscono per i costi che il passaggio alla legalità richiede, e affondano. «Non tutte è possibile salvarle, è vero — ammette Paola Pastorino —, ma noi, per esperienza vissuta sulla nostra pelle, sentiamo l’odore delle aziende: se c’è trippa o è un giro di carte. In quest’ultimo caso, non c’è nessun interesse a mantenerle in vita. Ma se c’è sostanza, perché non provare?».
Il gruppo dei 63 è stato addestrato per questo. Selezionati al principio del 2012 su oltre 260 dirigenti, hanno frequentato dei corsi concentrati nei fine settimana da febbraio a luglio 2012, sono stati divisi in squadre e hanno anche lavorato su 14 casi specifici, compilando dei report messi poi a disposizione dell’Agenzia e degli amministratori giudiziari. Risultati? Nessuno. I dossier sono rimasti nei cassetti, i 63 — che son tutti professionisti di lunga esperienza, età media cinquant’anni — son tornati alle proprie scrivanie. E l’ipotesi originaria che gli amministratori ai quali i tribunali affida la gestione delle società confiscate potessero utilizzarli come coadiutori non si è mai realizzata.
Eppure, nel dibattito che di recente si è riaperto sulla gestione dei beni sottratti alle mafie tutti — magistrati, politici, tecnici, forze dell’ordine, terzo settore — hanno ribadito che il buco nero è qui, nella vicenda delle aziende. Pochi giorni fa, in un seminario alla Bocconi, il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, ha sottolineato il «fallimento dello Stato», conseguenza della chiusura delle imprese che sono state criminali e della perdita di posti di lavoro: «Rischia di ingenerare la convinzione che quando il bene era gestito dal mafioso funzionava, quando è nelle mani dello Stato, va in malora».
Viene in mente, qui nei paraggi, il caso della Blue Call di Cernusco sul Naviglio, impresa di servizi che al sequestro nel 2012 ha un’apparenza florida e oltre 300 dipendenti: spolpata dai soci di‘ndrangheta, s’è avviata presto alla liquidazione. «Per queste operazioni di salvataggio, un amministratore giudiziario non basta — continua Pastorino —: senza nulla togliere alla loro professionalità, si tratta nella maggior parte di casi di un commercialista, che in un’azienda è abituato a controllare i conti, a fare il bilancio, ad avere una visione numerica».
In base ai calcoli, queste imprese confiscate sembrano spesso irrecuperabili. L’approccio di Paola e dei colleghi della sua «white list», invece, è diverso. «Se c’è valore in un’azienda — spiega — lo capisci parlando con i dipendenti, valutando il tipo di prodotti o di servizi, il portafoglio clienti, la collocazione sul territorio ».
Il suo caso di studio, per esempio, è il Moonlight. Un motel confiscato — dunque di proprietà dello Stato — che funziona ancora a ore sulla strada provinciale Binasco- Melegnano, nel Comune di Siziano, provincia di Pavia. Amministrazione giudiziaria, dipendenti che non hanno alcuna relazione con il criminale proprietario, al quale è stato sottratto, attività lecita e totalmente regolare. Il Moonlight, però, apre un bel dilemma, irrisolto, nella gestione dei beni ex mafiosi: è un caso raro di azienda che funziona ancora, anzi con una redditività in crescita, ma in un settore che è quanto meno imbarazzante per un bene dello Stato. Come si fa? Pastorino e i colleghi della sua équipe hanno studiato un progetto per trasformarlo in un albergo di tre, anche quattro stelle. L’ha preso in considerazione qualcuno? La risposta, di nuovo, è no.